Il 30 Aprile 1948, undici anni dopo la morte di Guglielmo
Marconi, giunse al Comune di Calderara di Reno una richiesta di una
testimonianza relativa alla parte sostenuta dal giardiniere della famiglia
Marconi, Antonio Marchi, durante gli esperimenti realizzati dal giovane
Guglielmo.
La richiesta partiva dalla Società Italiana Marconi di Roma,
con sede allora in via dei Condotti 11. Il Comune di Calderara venne
coinvolto in quanto i Marchi, quando lasciarono Villa Griffone, si trasferirono
appunto in quel comune. E in quell'anno, 1948, Antonio Marchi morì
all'età di 105 anni, quasi sul punto di arrivare ai centosei.
"Era una persona onesta, con una rettitudine infínita
- ricorda ancora il nipote, Mons. Giovanni Marchi - apparteneva
a quel mondo di uomini in cui la fedeltà era una ragione stessa
di vivere, uomini cbe trasmettevano sicurezza e affetto intorno a sé.
Ci fosse o non cifosse il Padrone 'presente', egli lavorava sempre con
la stessa passione e onestà. Era. oltrettutto, rispettoso fino
infondo: ad esempio, non riuscì mai a chiamare Marconi per nome,
ma sempre 'al Sgnurein' ".
Antonio Marchi morì serenamente, come d'altra parte aveva vissuto
serenamente i suoi ultracentenari anni di vita: l'inizio della fine
fu un piccolo incidente in casa, responsabile probabilmente il mantello,
che Marchi portava abitualmente durante la stagione fredda: mentre si
stava sedendo su una vecchia e sbilenca sedia di legno e paglia, inciampò,
si rovesció sul pavimento, batté il fianco e si ruppe
facilmente un femore. Era addolorato, rimase tale anche quando in ospedale
lo misero in trazione. Poi, inevitabilmente, data l'età, lo mandarono
a casa. Morì senza un lamento, forse pensando che avrebbe rivisto
sui prati e le colline del cielo il suo "signorino" e si sarebbero
riabbracciati come in quegli ultimi anni dell'Ottocento, quando un flebile
segnale elettrico sorvolava per la prima volta campi e alberi per giungere
al di là di ogni ostacolo.
Dunque, nello stesso anno, da Roma si chiedevano notizie su Antonio
Marchi e fu il figlio Giuseppe a raccontare al segretario del comune
di Calderara di Reno che cosa in realtà fosse accaduto in quei
due anni, importanti per la vita di Guglielmo Marconi.
In questo documento non si parla, ad esempio, del famoso colpo di fucile
che ormai biorafi e storiografi considerano verità indiscutibile.
Ma in realtà il colpo di fucile, come testimonianza della riuscita
dell'esperimento, certamente fu sparato. Sicuramente più di uno,
nelle precedenti prove quando, ad esempio, agli esperimenti assisteva
silenzioso e quasi timoroso il fratello Alfonso, il solo oltre a Guglielmo
ad avere confidenza con la doppietta da caccia. Certamente nella prova
decisiva oltre la collina dei Celestini, anche Alfonso era presente
col fucile, nella piccola gola che divide i Celestini dalla collina
dei Pigni.
Un'interessante testimonianza delle prove compiute a Villa Griffone:
in questo documento, un testo biografico su Marconi scritto dal fratello
Alfonso e corretto a penna da Guglielmo,
c'è la prova che Alfonso sparava i colpi di fucile per segnalare
a distanza quando la prova era positiva
È certo che, per quella propensione alla teatralità
che Marconi negli anni giovanili aveva sempre dimostrato di possedere,
il colpo di fucile fu sparato anche quando, da perfetto regista di se
stesso, organizzò, d'accordo con la madre, la dimostrazione dell'efficacía
della trasmissione senza fili per. convincere il padre a cambiare idea
e comportamento nei suoi confronti. Come infatti si verificò.
D'altra parte lo stesso Marconi sottolinea questo episodio in un testo
biografico scritto dal fratello Alfonso, corretto a penna da Guglielmo.
Un documento autografo e quindi inoppugnabile.
Ecco quindi delineate, nel racconto del figlio di Antonio Marchi, Giuseppe,
le mansioni principali del padre a Villa Griffone: giardiniere, uomo
tuttofare, ma soprattutto uomo di fiducia per "accompagnare
il Signorino" da Augusto Righi, nel corso delle stagioni estive.
Ma dietro a questa disponibilità di Righi, probabilmente c'era
l'intervento della madre del giovane inventore, che conosceva appunto
il Righi in quanto vicino di casa di un'amica dei Marconi. E Righi acconsentì,
forse sia pure a malincuore, a "iniziare" il giovane scalpitante
che voleva a tutti i costi penetrare i segreti dell'elettrofisica fino
a quei momenti conosciuta. "Prima lo studio e la teoria, poi
le ricercbe sperimentali!", gli diceva sempre lo scienziato
bolognese. Ma Guglielmo, anche se gli dava ragione, non aveva tempo
da perdere, voleva realizzare subito qualcosa - ed egli sapeva che cosa!
-, quindi dava ragione al Professore Righi, ma poi non appena superava
il fiume Reno e rientrava in villa col somarello, tenendosi abbracciato
all'amico fidato "Tugnat", saliva alla svelta nel laboratorio
dove ancora c'erano le tracce dei bachi da seta che lì venivano
distesi sui graticci e si chiudeva dentro ricominciando dal punto in
cui si era fermato, lavorando accanitamente sugli strumenti che stava
realizzando e sperimentando.
Ed ecco che il racconto di Giuseppe Marchi continua affrontando proprio
questo tema, il più interessante, delle sperimentazioni realizzate
da Guglielmo, che nell'anno indicato aveva solo 21 anni.
Siamo già nella fase decisiva degli esperimenti, quando gli strumenti
ormai ricevevano dei ritocchi che ne miglioravano sempre più
la funzionalità. Tuttavia in quell'anno, quando il giovane stava
già raccogliendo i frutti maturi della sua realizzazione nella
trasmissione di segnali senza fili, il padre continuava a contrastarlo
in misura pressante, tanto che Giuseppe Marchi lo sottolinea nel racconto,
come testimonia la lettera:
Un frammento della lettera menzionata in questa pagina web
"Gli esperimenti si susseguirono a sempre
maggiori distanze e in diversi punti del giardino. Tali
esperimenti dovevano venire eseguiti nei momenti di assenza del padre
del Signorino e a sua insaputa, percbé egli voleva cbe
il figlio si applicasse negli studi con maggior lena".
Il padre, dunque, continuava a non voler capire la portata degli esperimenti
del figlio Guglielmo, era scettico sui risultati di quelle che egli
chiamava " diavolerie " inutili. Tendenzialmente dava ragione
ad Augusto Righi, il quale riteneva Marconi in parte un utopista, che'
soltanto l'approfondimento degli studi avrebbe portato al successo.
"Deve studiare, altro cbe storie!", ripeteva monocorde
il padre Giuseppe.
Ma a poco a poco qualcosa cominciava a sgretolarsi dentro quella fermezza:
ciò si dovette anche all'opera di convincimento della moglie
Annie, che appoggiava apertamente l'avventurosa impresa di quel figlio
che ella vedeva deperire sempre di più, giorno dopo giorno, e
per il quale preparava colazioni sempre più sostanziose che depositava
in un grande vassoio davanti alla porta perennemente chiusa del suo
laboratorio al secondo piano della villa.
Dal momento in cui le pareti della stanza in cui lavorava Guglielmo
non erano più sufficienti per contenere l'ansia di allargarsi
verso l'esterno, di tentare l'impossibile, aumentando sempre la distanza
tra trasmettitore e ricevitore, diventava importante convincere il padre
a prestare il suo aiuto, forse assieme alla sua comprensione.
Così Giuseppe Marconi cedette e accettò di ascoltare quel
figlio che sembrava un invasato ma che per la verità sapeva guardare
verso il futuro con una naturalezza sconvolgente. Comprese, dalle parole
di Guglielmo, che l'invenzione poteva crescergli veramente tra le mani
e che questo "telegrafo senza fili" poteva anche
diventare un business.
Chiese - e ottenne - una testimonianza pratica, di assistere a una prova
tangibile: e Guglielmo gli disse di mettersi davanti al ricevitore e
ascoltare se ricevesse i tre punti, che erano diventati il simbolo di
ogni prova marconiana, la esse dell'alfabeto Morse. E l'esperimento
riuscì anche davanti al padre, il quale trasformò subito
il proprio umore e il proprio atteggiamento distruttivo, cominciando
ad affermare che se la "cosa" funzionava, si doveva
pensare allo sfruttamento intelligente.
In quel momento Guglielmo aveva raggiunto la distanza di nove metri,
ma si stava preparando a fare il grande salto nel suo domani: aveva
quindi bisogno di qualcosa di più di una comprensione o di un
assenso patemo. Aveva bisogno di finanziamenti seri e sostanziosi. Davanti
alla muta implorazione dello sguardo della moglie Annie, Giuseppe capì
che doveva fare un gesto, l'unico gesto che avrebbe concesso al figlio
di cominciare un nuovo periodo delle sue esperienze. Era il momento
di entrare nella fase decisiva delle prove: mise mano al portafogli
e col fare risoluto dell'imprenditore che intende finanziare un'iniziativa,
allungò al figlio una banconota da cinquecento lire! Con quel
piccolo capitale tra le mani, Guglielmo sapeva che avrebbe cominciato
a lavorare seriamente e soprattutto poteva entrare nell'ultima fase
delle prove. Poi prese in disparte Antonio Marchi e gli disse: "Antonio,
fa quello che ti dice difare il Signorino!". Marchi lo guardò
un momento in silenzio, poi con la serenità di sempre dipinta
sul viso rispose: " Sgnor Padroun, me a l'ho seimper
fat!", " Signor Padrone, io l'ho sempre fatto!".
Era dunque il preludio all'ultimo, decisivo esperimento che Marconi
intendeva realizzare
oltre la collina, quindi non a vista e alla distanza presunta di circa
due chilometri. Più avanti negli anni, Guglielmo Marconi avrebbe
raccontato all'amico e collaboratore Luigi Solari di quella fine
estate del 1895, quando ormai il mese di Settembre cedeva gli ultimi
sprazzi estivi al sopraggiungere dell'autunno che era già nell'aria,
ed egli capì che avrebbe potuto trasmettere onde alla distanza
di centinaia di metri intensificando i segnali mediante un palo che
sosteneva due legni a croce cui erano appesi quattro cubi di latta,
preparati e stagnati dallo stesso Marconi: questa rudimentale antenna
gli consentiva di aprire la strada verso l'ignoto ma anche verso il
trionfo. Nell'ultimo, decisivo esperimento al di là della collina
dei Celestíní, quell'antenna era innalzata a circa otto
metri dal suolo.
Estratto di una vecchia carta catastale
A questo punto la testimonianza del Marchi diventa affascinante:
"L'ultimo esperimento al quale assistette Antonio Marchi venne
eseguito in località 'Pigni' nella vecchia abitazione del fattore.
La cassetta era stata deposta su di un tavolino e dopo aver sentito
e contato i colpi trasmessi, che si susseguirono fino a cinque, venne
riportato tutto in Villa".
"Un particolare ricordato dal Marchi è il collocamento
di un palo di legno da cui pendevano diversi fili di rame i quali venivano
tenuti tesi da vasi vuoti di petrolio riempiti di pietre. Tutti gli
esperimenti sono stati effettuati sempre durante l'estate, poiché
nell'inverno il Signorino si recava con la madre in Inghilterra
".
Infine, la conclusione della lettera con la dichiarazione di autenticità
del testo, prima della firma del sindaco G. Bassi.
La vecchia casa dei Pati, un piccolo borgo che sorgeva proprio di fronte
a Villa Griffone, sulla Porrettana,
dove nacquero e crebbero gli ultimi testimoni marconiani.
Quando Antonio Marchi compì novan'anni, nel
1932, festeggiando anche le nozze di diamante, i cinquant'anni di matrimonio,
mentre era circondato dai figli e nipoti, gli giunse, tra le altre testimonianze,
anche una lettera da Roma, firmata da Guglielmo Marconi, in quell'epoca
presidente dell'Accademia d'Italia. Marchi restò quasi senza
fiato, le lacrime gli velarono quegli occhi azzurri come il cielo e.
non seppe dire nulla. Era stato Don Francesco Negrini, il parroco di
Calderara di Reno, dove si stava festeggiando Antonio Marchi, il mediatore
di questo incontro a distanza tra i due personaggi che avevano vissuto
insieme i primi momenti deffavventura della radio. Don Negrini ritenne
opportuno infatti avvisare Guglielmo Marconi che il "suo Tognetto"
aveva raggiunto l'invidiabile età di novant'anni. Marconi non
mancò all'appuntamento: inviò a Don Negrini, oltre a un
assegno di mille lire per Antonio, una testimonianza autografa di grande
interesse per il rapporto fra i due uomini che, ognuno per le proprie
possibilità, si maturò cosi profondamente in quegli ultimi
anni dell'Ottocento, quasi interpreti di una vicenda che sembra uscita
dalle pagine veristiche di Verga.
Cinque anni dopo, Guglielmo Marconi moriva - dopo uno dei ripetuti attacchi
di cuore di cui soffriva già da qualche tempo', tanto da essere
stato in pericolo in altre due occasioni - per infarto cardiaco. Era
il 20 Luglio 1937, quasi le quattro antimeridiane.
Quando Antonio Marchi lo seppe, non voleva credere che il "suo"
signorino fosse morto: "Impussebil, acsé zouven.!",
disse con un filo di voce.
Poi soggiunse: "L'é mort cal pover ragaz, safoss mort
mé, ch'era più vecc...!", " Impossibile, così
giovane! E' morto quel povero ragazzo, fossi morto almeno io, che ero
più vecchio!".
Ma Antonio Marchi doveva sopravvivere a Guglielino Marconi per altri
sedici anni: sarebbe morto nel 1948 alla bella e invidiabile età
di 106 anni!
Pontecchio Marconi - 1947 - Antonio Marchi alla bella eta' di 105 anni,
festeggiato dalla moglie e dalla figlia di Marconi. Marchi morira' l'anno
dopo.
Immagine di Marchi tratta da un documentario realizzato prima della sua morte.
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